Paciu Maison, nel bolognese l’esperienza unica della sensazionale Casa Museo d’Arte da abitare

Esiste un coacervo di folgorazioni visive chiamato Paciu Maison in grado di trascendere l’immaginabile e sublimare l’inconcepibile, una Casa Museo Contemporanea che promette “all’ospite di vivere un’esperienza unica e sensoriale, un viaggio tra il reale e il fantasioso”, ma anche un luogo di creazione ed espressione “dove si producono eventi, opere, performance e tanto altro”, immerso nella natura rigogliosa e a tratti perfino esuberante della campagna bolognese, nel territorio di Ponte Rizzoli, amena frazione di Ozzano dell’Emilia, con un ultimo tratto di strada prima di raggiungere la struttura il cui fondo quasi al naturale appare metafora dell’aspettativa in corso e annuncio di una strada nuova priva della cementificazione dell’ovvio, quasi un rito purificatore per abbandonare (pre)giudizi sulla creatività e predisporsi alla libertà di pensiero capace di diventare espressione attiva dell’ingegno.

Ingegno come quello sospeso tra lucida ascesi e fantasiosa concretezza di Harry Baldissera, prisma di così tante possibili interpretazioni del suo multiforme ingegno da fare risultare frustrante sul piano epistemologico ogni tentativo di ingabbiarlo in una definizione, tanto da doverne mettere insieme un’infinità in questo sterile tentativo classificatorio: pescando dal sito ufficiale, si parte da un suggestivo “un Maestro dell’Invisibile e un Eclettico Viaggiatore dell’Arte”, l’inevitabile “figura enigmatica e affascinante”, i più pragmatici “art director riconosciuto, curatore, regista e artista, con una carriera che abbraccia teatro, cinema e arti visive”, quindi un tautologico “creativo poliedrico” e il maggiormente affinato “si contraddistingue per un approccio olistico alla direzione artistica, fondendo stili e tecniche diverse”, fino al pedagogico “ha curato progetti di rilievo sia nazionale che internazionale, collaborando con istituzioni culturali, gallerie e artisti affermati e emergenti, contribuendo a iniziative che fondono estetica e impegno sociale”, cui aggiungere l’aver guidato “l’Art Department nel settore pubblicitario, realizzando campagne visive per marchi prestigiosi e collaborando con agenzie”.

Noi partecipiamo al precedente esercizio azzardando l’introduzione del concetto di caos che permea qui creatore e creatura, lui che sfugge perfino agli inquadramenti essenziali, tanto che “i suoi dati anagrafici sembrano dissolversi nel mistero e c’è chi sostiene che abbia sapientemente confuso le tracce, perfino presso l’anagrafe”, concedendo al massimo la confessione di “radici nella Svizzera francese e nel Veneto italiano” e ricordando di avere meritoriamente “portato l’arte in luoghi inusuali come ospedali, spazi aziendali e catene alberghiere, trasformando ambienti ordinari in esperienze straordinarie”.

Eppure non si avvertono segni di bulimia cerebrale nell’incontrare Harry, piuttosto fortissima tensione etica tradotta in atto creativo mai banale o casuale, bensì sempre basato su solidi studi umanistici e scientifici (non allineati) che non hanno paura di affrontare anche i temi dell’ignoto e dell’inspiegabile senza pregiudizio, sia che si tratti di approfondimenti di storia reale come quelli sfociati nella Sala Egitto popolata da segni iconici degli Antichi Egizi…

… sia che a dettare questa sorta di transustanziazione laica siano perfino presunte eresie cartesiane e la sconvolgente verità nascosta dietro i numeri immaginari, come accade nella Sala Cartografia.

Questa tempesta intellettuale però non tracima in alcuna forma di supponenza, grazie a un certo candore pure fisiognomico di Harry, la cui empatia lo porta a essere formidabile divulgatore (non soltanto) di ciò che realizza, come questa Paciu Maison riassunta quale “unica opera d’arte abitabile in Italia”, nata dall’urgenza di mettere alla prova il proprio afflato artistico dopo avere a lungo incoraggiato e gestito quello altrui: venuto in possesso di tale affascinante casale, dopo avere in un primo momento pensato di farlo impreziosire da altri creativi, è poi giunto alla conclusione di mettere alla prova se stesso, imparando da autodidatta tecniche e impiego dei materiali, sporcandosi davvero le mani e non soltanto quelle, come testimoniano gli indumenti pieni di schizzi di colore incorniciati lungo il percorso di visita.

In un turbinio di stili e applicazioni, emerge in particolare la sapienza acquisita nell’uso degli smalti, frutto di innumerevoli sperimentazioni che hanno finito con assumere il valore di un’autentica firma oltre che leitmotiv visivo della struttura.
Gli smalti assumono – non soltanto idealmente – la funzione di collante, la stessa svolta nella realtà, stendendo una coltre cromatica tesa a tenere insieme tanti ingredienti materici, traducendo l’incompatibilità potenziale in osmosi essenziale, in guisa di un magma tumultuoso che una volta raffreddato disegna un nuovo paesaggio dell’anima, ponendosi quale tracciato calpestabile da seguire, come se lo Stige non avesse più bisogno di Caronte e ciascun visitatore eleggesse se stesso a Virgilio.

E i materiali fagocitati dalla mente di Harry sono tanti, come gli scatti fotografici che oltre a fissare tranche de vie assolutizzate finiscono col comporre collage memori delle radici prodromiche di Picasso e Braque, passando per i neo-mosaici della contemporaneità di Rauschenberg e la contraddizione pop dei décollages di Rotella, anche se poi la mente vola alla complessità meditata di Ardengo Soffici.

Ma qui gli oggetti non tentano incessantemente la fuga verso il significante, porgendosi orgogliosamente all’osservatore nel solo significato pedissequo, in quanto il valore risiede nel loro status di testimonianza, da quella storica di un’arma impiegata in nota pugna…

… al valore antropologico di una macchina per scrivere Olivetti atta a vergare parole attente come un tempo…

… anche se il folletto Harry non perde occasione per piazzare un divertissement, come il ribaltamento fenomenico del servizio da te incollato al tetto ponendo gli oggetti in posizione capovolta.

Sono momenti salienti di un allestimento diviso in stanze tematiche come fossero capitoli di un libro traboccante di filosofia, quale la Sala dello Scatto che nella sua perentoria ieraticità questa volta porta le sinapsi ad associazioni con Schwitters e Höch…

… mentre di omaggio dichiarato bisogna parlare nel caso della Sala Van Gogh, un bagno che “vuole essere un tributo al pittore Vincent Van Gogh, alla sua vita e alla sua arte, inevitabilmente connesse una all’altra”.

Stesso ambiente funzionale per la Sala del cospetto in cui rimanere “da soli con il proprio corpo, davanti ad uno specchio che frammenta le varie forme di noi stessi facendole schizzare nella stanza, imprigionandole nelle piastrelle lungo tutto il muro”…

… e tocca a una cucina mutare nella Sala della goccia intesa “come il luogo in cui le chiacchiere e i convenevoli perdono la loro leggerezza per farsi cibo, per nutrire gli altri”…

… mentre un altro desco celebra la presenza del rosso come colore della convivialità, riconducendo il concetto di desinare da necessità prosaica a elevata condivisione da dialogico simposio socratico.

La vetta dell’emozione e al tempo stesso della profondità si raggiunge con il Mausoleo in cui “vita e morte convivono qui in un’unica stanza, senza entrare in conflitto, trovano posto per erigere una imponente struttura celebrativa”: al centro si impongono una costruzione che richiama le sepolture arcaiche, presidiata da manichini che le conferiscono un’atmosfera metafisica…

… invece al centro si impone la sagoma grezza e mossa di una bara nella quale Harry dichiara di accomodarsi spesso, non come presagio e senza scaramanzia, bensì per renderlo “un tempio all’artista e quindi, alla sua morte, la quale porta via con sé le insicurezze della vita proprie dell’uomo e lascia ai posteri la fama e la gloria delle gesta dell’artista che diventano mito”.

Tutto questo è una residenza in cui chi vuole può vivere “una notte da artista”, la quale “non è un B&B” ma “un’esperienza immersiva, una residenza artistica da vivere sulla propria pelle: per una notte, entri dentro un’opera d’arte, abiti stanze visionarie e vivi come un artista”.

Imperdibile poi la possibilità di svolgere laboratori il cui intento non è soltanto trasmettere conoscenze pratiche bensì quello di spingere ogni partecipante a operare su se stesso una maieutica autarchica della propria creatività endogena.

Da aggiungere che “la casa offre la possibilità ad artisti e ricercatori di tutte le discipline di realizzare residenze artistiche di creazione, ricerca, insegnamento e apprendimento: è possibile proporre ricerche pratiche e teoriche per creazioni artistiche, laboratori e seminari di riflessione su argomenti affrontati nella residenza”.
Anche in questo caso tutto avviene con un forte impianto deontologico, quindi promuovendo temi quali transculturalità, immigrazione, arte terapia, arte e scienza, dipendenze, inquinamento ambientale, riciclo.

Fin qui lo sforzo di descrivere a parole un progetto capace di sfuggire a ogni oggettivazione, in cui qualsiasi sensibilità può trovare corrispondenze, stimoli, conforto, stupore, ammirazione, ma anche problematicità, perplessità, interrogazioni, tutto fuorché l’indifferenza.
Anche questo rende Paciu Maison una meta necessaria per gli amanti dell’intelligenza e di tutte le sue infinite mutazioni.
Info: https://www.paciumaison.com/it_it/